Buongiorno,
se chiedessimo a qualcuno, tra la gente: “Si ricorda di qualche mito o frase degli antichi Greci?”, molto probabilmente ci sentiremmo rispondere: “Il mito della caverna” e “Conosci te stesso”. L’immaginario collettivo questo ci riporta e ci sta: stra-usatissimi, nel cinema, in teatro, nello sport e nelle aziende. Per i motivi più disparati e spesso, diciamolo, a sproposito.
La narrazione del mito della caverna credo sia comune a tutti, lo è forse meno la completezza del “conosci te stesso”, ascritto all’ingresso del tempio di Apollo a Delfi (siamo alla metà del VIII secolo a.C., sul monte Parnaso, un centinaio di chilometri a nord di Atene). La frase da sempre riportata è incompleta perché, nella sua interezza dice: “Conosci te stesso, ma nulla di troppo.” Quel “nulla di troppo” è il “senso della misura”, così caro ai Greci e così necessario per qualificarci come umani e di cui si sta perdendo traccia: stiamo, o almeno, alcuni stanno diventando dei moderni Prometeo che vogliono sottrarre il potere del fuoco agli dèi per impossessarsene. Ma quel cancellare il “nulla di troppo”, li porterà al castigo eterno dell’aquila che, di giorno, mangia a Prometeo un fegato che inesorabilmente ricrescerà di notte? Il tempo, come sempre, ci dirà…
E se è vero, e lo è, che Gesù è stato contemporaneo della frequentazione greca di quel tempio, che sopravvisse fino al 390 d.C. prima di essere distrutto da cristiani un po’ troppo zelanti ai dettati della nuova religione dell’Impero, un suo interessante rapporto, uno dei tantissimi per la verità (e ne parleremo in altri articoli), con la scuola greca, sta nel mito della caverna. Anche se a qualcuno parrà strano, o “tirato”, come si dice, lo so. Ma una riflessione si può fare.
Nel mito come ricorderete, c’è un prigioniero che ha la possibilità di essere liberato dalle sue catene e vedere cosa c’è fuori dalla caverna; vede, quindi, e poi torna dentro dai suoi compagni a raccontare ciò che ha visto: una nuova realtà diversa dal consueto, diversa dall’abitudinario, diversa dalla finzione che i suoi compagni credono la verità. Incontra però resistenza, viene deriso, chiamato pazzo, spacciato per uno che perso il senno ( sic… ) e trova il rifiuto dei suoi compagni. La sua insistenza risulterà scomoda, fastidiosa, ed è esattamente quello che accade nella vita di tutti i giorni quando qualcuno di noi, per esperienza, vede le catene di un amico, di una persona che ama, di chiunque gli stia a cuore ma incontra le sue resistenze nella liberazione da esse, al punto da risultare un “rompiscatole”. Da allontanare. Cambiare prospettiva, anche per rinascere, è il proprio lavoro più difficile del mondo.
E Gesù, in questo mito, dove lo troviamo presente, quattro secoli dopo la scrittura del dialogo con Glaucone? Lo troviamo al VII Libro della Repubblica, al punto 517 (a), laddove Platone, rivolgendosi a Glaucone, il suo interlocutore, appunto, scrive: “E chi prendesse a sciogliere e a condurre su quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero, se non potessero averlo tra le mani ed ammazzarlo?” “Certamente” rispose Glaucone.
È esattamente ciò che, in altro contesto è successo a Gesù: il suo risveglio delle coscienze, il suo “essere motivo di rivelazione”, questo gli è costato: un processo sommario, una condanna a morte, un sacrificio indotto dalla paura di un giudice nemmeno giudicante, che lascia fare alle urla della “pancia” della moltitudine. La “trappola” (come la chiamerebbe Vito Mancuso nel suo “Il coraggio di essere liberi”) del consueto, anche se finto, illusorio, propinato da altri per il loro dominio sulle coscienze può molto, ha fascino, propone punti certi, risolve dubbi, e spesso, anche nella nostra epoca, vince sulla libertà di situazione e di pensiero che, per propria natura ontologica, propone il lavoro di “pensare”. A suo tempo, la “pancia” della moltitudine, il prezzo di quel lavoro, lo fece pagare a Gesù, a vantaggio di tutti, ricompensandolo però non con una medaglia, né con posto di potere, ma con una croce da portare sulle spalle fino in cima. Ignara, quella “pancia”, per ignoranza e supponenza, che nessuno si libera da solo, e Gesù, profeta di ciò, è entrato nelle caverne interiori di ognuno per dare un’opportunità, per mezzo di lui o per mezzo di chi fa, come Lui della Relazione, del Logos, la mappa per raggiungere l’uscita dalla caverna. Gesù, col suo esempio, non ha regalato certezze, lo ha detto chiaramente che il lavoro è personale, la propria uscita dalla caverna è una assunzione di rischio, pensiamo alla sua croce, ma la Luce è li, e quando imbocchiamo l’uscita, cerchiamo di non rientrare.
Vince
Note:
1. la traduzione del passo di Platone è di Franco Sartori, in Platone, La Repubblica, Economica Laterza, pagina 231-232, 23^ Edizione, Anno 2024
2. l’immagine è dal web di pubblico dominio